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Chi sono io per giudicare?

Perché il parere dell’altro è più importante del nostro?

Ho sempre pensato che uno dei mali peggiori dell’umanità sia il giudizio, tutt’oggi la penso ancora così.

La via del giudizio è talmente facile che può esser percorsa da tutti, quella della comprensione, quella sì che mi interessa; per arrivarci si deve passare da tante altre strade, bisogna aver scelto di non fermarsi alla sola apparenza delle cose, bisogna aver compreso dopo tanti tranelli che ciò che abbiamo non solo è prezioso ma è calibrato apposta per noi.

Avere paura di non essere all’altezza è comprensibile, è umano e per questo non solo lo capisco, ma lo rispetto.

Quando siamo di fronte ad una prova, o siamo immessi in uno standard che sia sociale, familiare o di ruolo, può esser difficile paragonarsi incessantemente a questo; diventa quasi una sfida continua, tra la difficoltà di continuare a tenere una parte e l’essere schiacciati da questa.

Quando rischiamo di essere vittime del giudizio?

Può capitare che nella vita abbiamo la sensazione di non scegliere ciò che viviamo, così ci sentiamo vittime d’ingiustizia, e se in una data situazione aumenta il nostro disagio e la nostra disapprovazione, subiamo tutto questo quotidianamente, fino a che la sensazione di ingiustizia cresce fino al punto di essere al centro del nostro modo di vivere.

Senza volerlo, e senza rendercene conto, diventiamo i nostri peggiori nemici, perché non ci permettiamo niente, perché non ci concediamo il beneficio del dubbio, se siamo vittime del nostro giudizio prima ancora di quello degli altri, non ci possiamo permettere altro se non di rispondere a quello che ci si aspetta da noi.

Una vita così può diventare pesante, in questo modo diventiamo pesanti e se non abbiamo pietà per noi stessi, come possiamo averla per le persone che conosciamo?

Così riserviamo agli altri la nostra stessa condanna.

Se giudichiamo noi stessi, come possiamo non giudicare gli altri?

Penso a tutti quei “bambini nati grandi”, dai quali ci si aspetta da sempre, al di là delle loro possibilità che sappiano agire e capire al meglio, anche meglio dei genitori stessi.

Queste sono eredità inconsce pesanti, che portano a saltare le tappe e a far vivere con difficoltà le persone.

Il peso delle responsabilità, è qualcosa che si può supportare con la maturità che solo il crescere può realizzare; i “bambini adultizzati” non hanno il lusso di poter scegliere, possono solo pensare a non deludere chi amano immensamente, i loro genitori.

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Crescere prevede un ingrediente essenziale, cioè la comprensione delle difficoltà che incontriamo, questo concetto è essenziale se pensiamo che per crescere si deve inevitabilmente sbagliare.

Se non comprendiamo l’errore, è molto difficile non pensare di abitare in un mondo ingiusto fatto di buoni e cattivi, dove noi siamo la giustizia e per mancanza di libertà e fiducia, ci dobbiamo difendere costantemente da ciò che ci circonda.

Penso a tutte quelle persone che hanno grandi ideali, talmente grandi da rifugiarsi in questi come scappatoia per non sentire la sensazione di impossibilità di ciò che stanno vivendo.

Si fantastica allora di essere eroi o eroine, ma scegliendo la fuga eroica ci dimentichiamo il vero problema, ovvero che la realtà va affrontata un passo alla volta, calandosi in questa.

È impensabile poter agire sui nostri problemi se non ci sentiamo immessi nella nostra umanità, con le nostre fragilità ma anche con la nostra determinazione.

Non sta a me stabilire se la vita sia giusta o ingiusta, a me basta che sia possibile!

Si giudica per difenderci dal parere degli altri e finisce così che rimaniamo intrappolati nel nostro stesso giudizio.

Questo è un compromesso amaro, che schiaccia e non aiuta a vedere le cose per quelle che sono, ma solo per quello che il nostro giudizio ci fa vedere.

Luigi Pirandello, drammaturgo, intenditore di maschere e sfaccettature della personalità, nonché maestro della letteratura italiana, in una delle sue citazioni più famose, esprime molto bene l’incompletezza del giudizio:

Prima di giudicare la mia vita
o il mio carattere
mettiti le mie scarpe,
percorri il cammino
che ho percorso io.

 Vivi il mio dolore, i miei dubbi,
le mie risate.
Vivi gli anni che ho vissuto io
e cadi là dove sono caduto
e rialzati come ho fatto io.”

Come posso comprendere l’altro se non metto le sue scarpe?

Come posso capire me stesso se non comprendo le mie difficoltà?

Quando ero all’Università, tra gli esami del primo anno c’era anche quello di “Antropologia Culturale”; l’ultimo capitolo s’intitolava

Come fare buon uso del relativismo culturale”, l’ho letto, sottolineato, assorbito in ogni sua parte perché mi resi conto che aveva in sé un concetto che si è rivelato fondamentale per la mia vita, cioè l’importanza di saper relativizzare.

Lo studio delle culture è fatto da interpretazione ed espressione; il relativismo culturale è usato dall’antropologo come principio metodologico: non si può analizzare un tratto culturale indipendentemente dal sistema culturale al quale appartiene perché è l’unico a poterne fornire il senso

(Grignon e Passeron, 1989).

A che cosa serve relativizzare?

Senza essere antropologi, ci possiamo rendere conto di quanto la nostra vita è fatta su misura per noi; gli altri saranno sicuramente invogliati dal giudicarla, ma a parte il macabro divertimento, così facendo si perderanno il meglio, conoscerci e comprenderci nelle nostre difficoltà, proprio dove una persona si differenzia da un’altra.

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